Indicazioni per orientare il cammino

A conclusione di questi tre giorni di preghiera e di riflessione, di ascolto e di confronto, sento innanzitutto il dovere di ringraziare il Signore per l’esperienza di Chiesa che abbiamo vissuto e per questa ventata d’aria fresca che abbiamo respirato.

Ci fa bene aprire le porte! Ci fa bene andare fuori; ci fa bene incontrarci e, soprattutto, come Chiesa tutta, metterci in ascolto del Signore.

Dobbiamo ringraziare il Signore anche per l’esperienza di comunione che abbiamo vissuto; siamo stati in tanti e provenienti da tante realtà. Si è cercato di coinvolgere la Chiesa in tutte le sue componenti, come popolo di Dio; molti si sono lasciati coinvolgere: preti, diaconi, religiose, religiosi e laici, appartenenti alle tante realtà ecclesiali dell’isola. È stata, come sempre accade, quando ci raduniamo nel nome del Signore, un’esperienza di bellezza! Abbiamo sentito in alcuni momenti, forte, il passaggio del Signore in mezzo a noi! “…Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20).

Questa esperienza mi fa rendere ancora più conto che non è vero che nella nostra chiesa tutto va male, non è vero che facciamo acqua da tutte le parti, per dirla con l’immagine della barca. Certo, ci sono tante cose che non vanno e che bisogna che il Signore aggiusti! È Lui che aggiusta: non siamo noi! Ci sono sì tante ferite, ma c’è anche tanto positivo, tanto bene, tanta gente che vuole fare sul serio: voi ne siete la prova più evidente. Io vi vedevo in questi giorni, in assemblea e nei laboratori mentre i relatori parlavano; anche i vostri volti parlavano, non solo i relatori. Mi verrebbe da dire che dobbiamo davvero lamentarci di meno e lavorare di più per il positivo. “Che i nostri figli inquieti di certi gruppi respingano [dunque] gli eccessi della critica sistematica e disgregatrice! – scriveva, nella Gaudete in Domino del 1975, Paolo VI, che fra qualche ora chiameremo beato – Senza allontanarsi da una visione realistica, le comunità cristiane diventino luoghi di ottimismo, dove tutti i componenti s’impegnano risolutamente a discernere l’aspetto positivo delle persone e degli avvenimenti“. Ed è per questo che abbiamo voluto Kaire – Rallegrati! – il nostro giornale diocesano; sono contento dell’incoraggiamento che questa sera ci è venuto da Mons. Bregantini in questa direzione! Il giornale vuole servire innanzitutto a questo, a mettere in evidenza il positivo e il bello che c’è ed è tantissimo nella nostra Chiesa. Entriamo in un atteggiamento eucaristico, che è quello della gratitudine. Vogliamo incontrarci, guardarci negli occhi, vedere il bello che c’è in ognuno di noi e ringraziarci reciprocamente e insieme ringraziare il Signore. Questo è il primo atteggiamento che possiamo assumere se vogliamo essere una Chiesa che guarda al futuro e non si lecca soltanto le ferite.

In questa Veglia Missionaria che celebriamo a conclusione del Convegno vorrei offrire alcune indicazioni che possano tornare utili per il cammino della nostra Chiesa: possibili indicazioni di marcia per essere una Chiesa in uscita o, se preferite, appunti… per orientarci nella navigazione!

Lo faccio, innanzitutto, riconsegnando spiritualmente a tutti voi la Lettera Pastorale “Con gioia ritorniamo a casa!” che vi ho scritto all’inizio della Quaresima di quest’anno.

Nel dare il benvenuto a tutti voi all’inizio del nostro VIII Convegno Diocesano, vi dicevo: “Ecco perché siamo qui: per cooperare al sogno di Dio sulla Sua Chiesa che è in Ischia! Qual è il sogno di Dio sulla Sua Chiesa che è in Ischia?Quale il progetto d’amore che Dio ha per il Suo popolo che è in Ischia? È la domanda che sempre dovrebbe abitare nel cuore di tutti noi, e che in modo particolare vogliamo porci in questo VIII Convegno ecclesiale”.

A conclusione di queste tre giornate vissute insieme sento che, anche attraverso i tanti interventi che abbiamo ascoltato, una cosa il Signore ci chiede di fare: il Signore ci chiama ad essere sempre più una Chiesa che vive una profonda intimità con Lui e un forte slancio missionario, una viva amicizia con Lui e una grande passione per l’uomo! Una Chiesa, dunque, non autoreferenziale ma decentrata! Vorrei dire, usando un’immagine a me cara, una Chiesa estatica! Una Chiesa non statica ma estatica!

Questa parola,dal greco ex-stasis, nel significato più generico, indica uno stato di isolamento e d’innalzamento mentale di chi è assorbito in un’idea unica o in un’emozione particolare; più propriamente, essa dice, però, un movimento di uscita per cui la persona sperimenta un essere fuori, un “uscire fuori di sé”. È così che ci vuole il Signore!

Come fare per essere una Chiesa estatica?

Provo a rispondere a questa domanda declinando con voi alcune parole!

La prima parola è Trascendenza.

Sta ad indicare la dimensione contemplativa della vita. Papa Francesco così si esprimeva al Congresso internazionale sulla catechesi il 27 settembre 2013: “La prima cosa, per un discepolo, è stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui. E questo vale sempre, è un cammino che dura tutta la vita. (…) Questo scalda il cuore, tiene acceso il fuoco dell’amicizia col Signore, ti fa sentire che Lui veramente ti guarda, ti è vicino e ti vuole bene. Se nel nostro cuore non c’è il calore di Dio, del suo amore, della sua tenerezza, come possiamo noi, poveri peccatori, riscaldare il cuore degli altri? Pensate a questo!”. E a noi vescovi italiani, il 19 maggio di quest’anno diceva: ”Non stanchiamoci, dunque, di cercare il Signore – di lasciarci cercare da Lui -, di curare nel silenzio e nell’ascolto orante la nostra relazione con Lui. Teniamo fisso lo sguardo su di Lui, centro del tempo e della storia; facciamo spazio alla sua presenza in noi: è Lui il principio e il fondamento che avvolge di misericordia le nostre debolezze e tutto trasfigura e rinnova; è Lui ciò che di più prezioso siamo chiamati a offrire alla nostra gente, pena il lasciarla in balìa di una società dell’indifferenza, se non della disperazione”.

La seconda parola è Vicinanza.

Che significa vicinanza? Sempre a Caserta il papa diceva: ”Ma c’è anche l’altra trascendenza: aprirsi agli altri, al prossimo. Non bisogna essere una Chiesa chiusa in sé, che si guarda l’ombelico, una Chiesa autoreferenziale, che guarda se stessa e non è capace di trascendere. È importante la trascendenza duplice: verso Dio e verso il prossimo. Uscire da sé. E quando io esco da me, incontro Dio e incontro gli altri. Come li incontro gli altri? Da lontano o da vicino? Occorre incontrarli da vicino, la vicinanza”. E al Congresso sulla catechesi il papa diceva ancora: “Ripartire da Cristo significa imitarlo nell’uscire da sé e andare incontro all’altro. Questa è un’esperienza bella, e un po’ paradossale. Perché? Perché chi mette al centro della propria vita Cristo, si decentra! Più ti unisci a Gesù e Lui diventa il centro della tua vita, più Lui ti fa uscire da te stesso, ti decentra e ti apre agli altri”.

Un’altra parola è Evangelizzazione.

Perché non evangelizziamo? Perché, nonostante la Chiesa da tanto tempo ci stia dicendo che bisogna evangelizzare, di fatto quest’opera non sempre avviene e, comunque, stenta ad essere attuata? Sono almeno 40 anni che parliamo di evangelizzazione! Proprio nel 1974 si celebrava il Sinodo dei Vescovi sull’Evangelizzazione e nel 1975 Paolo VI ci donava l’Evangelii Nuntiandi. Perché, dunque, non evangelizziamo?

Nella prima lettura di questa veglia abbiamo sentito di Giona che va a Ninive!

Perché, all’inizio, Giona non vuole andare a Ninive? Il papa parla della sindrome di Giona! Perché Giona crede di conoscere Dio ma non lo conosce e, soprattutto, non lo ama! Lo teme ma non lo ama! E per questo guarda i niniviti dall’alto in basso! Poi però, proprio attraverso quella missione, Dio lo converte!

Ed allora perché non va avanti l’evangelizzazione? Forse perché siamo pigri? Forse perché i preti hanno voglia di fare altro? No! Certamente no!

Certo c’è l’accidia, ma il motivo è un altro ed è più grave: non abbiamo forse molto da dire! Niente per cui dare la vita; niente che riteniamo veramente interessante! Niente per cui dare la vita! Vorrei dire così: ha da dire veramente qualcosa chi è capace di morire per qualcosa! Ma ciò richiede sperimentare, noi per primi sulla nostra pelle, la bellezza del vangelo e la necessità di aderirvi continuamente.

Ci diceva ancora il Papa il 19 maggio: “Fratelli, se ci allontaniamo da Gesù Cristo, se l’incontro con Lui perde la sua freschezza, finiamo per toccare con mano soltanto la sterilità delle nostre parole e delle nostre iniziative. Perché i piani pastorali servono, ma la nostra fiducia è riposta altrove: nello Spirito del Signore, che – nella misura della nostra docilità – ci spalanca continuamente gli orizzonti della missione”.

Nel Vangelo di questa sera ci è detto di Maria che va ad Ein Karem. Perché Maria va da Elisabetta e vi va in fretta? Perché Maria ha qualcosa da dire! Evangelizzare significa avere qualcosa da dire. Perciò Maria corre da Elisabetta in fretta; perché ha qualcosa da dire; perché dentro di Lei c’è una vita che si muove; si muove “la Vita”! Maria si rende conto che qualcosa sta nascendo, qualcosa di bello! E non può tenerlo per sé! Ecco da dove parte l’evangelizzazione: da una vera esperienza di incontro con il Signore che ti cambia la vita! L’evangelizzazione nasce dalla conversione.

Un’altra parola è Formazione.

Forse abbiamo un’idea sbagliata di formazione.

Quanti cristiani abbiamo formato? Quante scuole per operatori pastorali; e poi ancora: scuola per i catechisti, per i ministri straordinari della Comunione; per l’impegno sociale e politico. Per carità, tutte cose buone! Ma forse c’è bisogno di altro.

Forse c’è bisogno di una scuola di vita cristiana! Abbiamo scimmiottato la formazione teologica che si fa nei seminari e l’abbiamo riproposta pari pari ai laici. Ma guardate che anche nei seminari se questa formazione teologica non è per la vita – la vita e poi il ministero! – non serve a nulla; serve solo a formare gente che dica: stai zitto perché io questo lo so e tu no!

Allora l’obiettivo qual è? Bisogna formare discepoli!

Formiamo discepoli e avremo missionari. Per tanto tempo abbiamo pensato di formare missionari senza curare che fossero discepoli o dando per scontato che lo fossero.

Io sarò un buon vescovo non se faro piani pastorali intelligenti, se m’inventerò chissà quale alchimia pastorale, ma se sarò innanzitutto un discepolo! Se mi nutrirò del vangelo; se il vangelo sarà la mia vita!

Dice Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium: “se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù; non diciamo più che siamo “discepoli” e “missionari”, ma che siamo sempre “discepoli-missionari”(120).

Un’altra parola è Insieme.

Si può dire anche con altri termini. Oggi si parla spesso di rete o di sinergia. Dobbiamo imparare a lavorare insieme, a collaborare con gli altri sapendo che nel lavoro pastorale non è possibile essere navigatori solitari; non lo è stato mai e soprattutto non può esserlo ora.

C’è bisogno, perciò, a livello pastorale, di metterci in rete. Tale sinergia ci è richiesta anche a partire dal servizio concreto che dobbiamo rendere all’uomo che non è possibile considerare a compartimenti stagni e che perciò chiede a tutti noi di imparare a lavorare insieme.

Ciò significa, concretamente, in ambito pastorale, a livello diocesano e non solo, imparare a collaborare; significa che gli uffici devono lavorare insieme, perché o impariamo a fare le cose insieme o saremo destinati al fallimento prima di partire.

Ma questo lavoro di rete non ha solo un valore funzionale; non può ridursi ad un motivo strumentale. Esso deve essere invece espressione di una realtà ben più profonda che noi chiamiamo: comunione. Un regno diviso in se stesso va in rovina (Lc 11,17). Penso, in questo senso, a quanto proprio oggi San Gregorio Magno ci diceva nell’Ufficio delle Letture: Ecco che egli manda a due a due i discepoli a predicare, perché sono due i precetti della carità: l’amore di Dio, cioè, e l’amore del prossimo. Il Signore manda i discepoli a due a due a predicare per indicarci tacitamente che non deve assolutamente assumersi il compito di predicare chi non ha la carità verso gli altri” (Omelie sui vangeli 17, 1-3; PL 76, 1139). Questa parola ci spinge a liberarci di certe contrapposizioni che ancora ci sono nella nostra Chiesa. Dico “ancora” perché certe contrapposizioni erano presenti nella Chiesa italiana negli anni ’80, ma oggi sono ormai superate. Ricordate negli anni ’80? C’erano nel laicato cattolico italiano contrapposizioni; pensate a quella tra Azione Cattolica e Comunione e Liberazione; due stili a confronto: la presenza e la mediazione. Sono cose di trentacinque anni fa, superate alla grande e che invece ritornano ancora oggi nella nostra Chiesa; per cui siamo ancora a vedere se io sono di Cefa, se io sono di Apollo (cf. 1Cor 1,12); il mio gruppo, il mio movimento, la mia associazione. I movimenti e le associazioni sono una grazia di Dio, dobbiamo sempre tenerne conto. Sono un dono per la Chiesa. Anzi, ai movimenti e alle associazioni, proprio perché sono un dono, dobbiamo chiedere, come sta facendo Papa Francesco, sempre più di uscire; non possono stare chiusi dentro la loro aggregazione; uscire per collaborare con gli altri e mettersi a servizio della Chiesa locale e della pastorale diocesana. La Chiesa ha bisogno di movimenti, associazioni, cammini, di laici che a qualsiasi realtà appartengano si mettano in atteggiamento di uscita e imparino a volersi bene e a lavorare insieme. Su questo punto non possiamo più transigere.

Un’altra parola è Regno.

Siamo stati tutti cooptati dal Signore per realizzare il suo sogno che è il Regno, non la Chiesa, ma attraverso e dentro la Chiesa siamo stati chiamati a costruire il Regno di Dio. Il Papa domenica scorsa diceva: ”Tutti siamo chiamati a non ridurre il Regno di Dio nei confini della ‘chiesetta’ la nostra ‘chiesetta piccoletta’ – ma a dilatare la Chiesa alle dimensioni del Regno di Dio” (Angelus del 12 ottobre 2014). Il Regno di Dio è il sogno di Dio per gli uomini, per il quale Lui non ha ricusato di mandare Gesù Cristo. La Chiesa, di questo Regno, è continuamente chiamata ad essere anticipo e promessa. Come fare perché ciò si realizzi?

Con lo stile di Gesù: gestis verbisque, eventi e parole, dice il numero 2 della Dei Verbum. Come Gesù ha costruito il Regno di Dio? Con parole e gesti, con vangelo e carità! Così deve fare anche la Chiesa! Innanzitutto annunciando seriamente la Parola di Dio! Nei nostri percorsi di catechesi noi spesso ci riduciamo a fare, nelle migliori delle ipotesi, istruzione religiosa; ma la gente, alla fine, si innamora di Gesù Cristo? C’è bisogno di una proposta di annuncio serio che faccia incontrare le persone con Gesù. Quanti vengono a contatto con le nostre parrocchie rimangono o scappano, perché al posto di essere attraenti siamo stati “repellenti”?

Non basta, però, l’annuncio! Bisogna anche farlo vedere concretamente il Vangelo. Al massimo noi lo annunciamo, ma non si vede da nessuna parte realizzato questo Vangelo! Il Papa a noi vescovi, sempre a maggio, ci ha raccomandato l’eloquenza dei gesti, piccoli gesti…; non possiamo sostituirci alle istituzioni, ai comuni, agli enti, ma dobbiamo compiere dei gesti che siano eloquenti e facciano vedere il Vangelo.

Il primo gesto eloquente è l’accoglienza in ogni suo aspetto e dimensione:da quando la gente bussa alle porte delle nostre chiese a quando partecipa alle nostre liturgie.

Un’altra parola è Poveri.

L’accoglienza che va espressa soprattutto verso coloro che il mondo meno accoglie, quelli che il mondo reputa scarto. Allora significherà accogliere i poveri, i malati, quanti vivono situazioni di dipendenza e di disagio, i malati di mente, i fratelli ospiti del nostro centro Giovanni Paolo II a Forio.

Dice Papa Francesco “La testimonianza della carità è la via maestra dell’evangelizzazione. In questo la Chiesa è sempre stata ‘in prima linea’, presenza materna e fraterna che condivide le difficoltà e le fragilità della gente. In questo modo, la comunità cristiana cerca di infondere nella società quel ‘supplemento d’anima’ che consente di guardare oltre e di sperare” (Campobasso, il 7 luglio 2014). C’è bisogno che la nostra Chiesa sviluppi questa testimonianza! Una testimonianza che, però, va fatta senza delegare ma coinvolgendoci tutti, come comunità cristiana. Vanno ripensate, in questo senso, le Caritas parrocchiali e la Caritas diocesana!

Un’altra parola è Famiglia e Giovani.

Quando parliamo della famiglia spesso lo facciamo in maniera problematica o con la consapevolezza che bisogna fare qualcosa per la famiglia e che la famiglia ha bisogno di noi.

Abbiamo invece sperimentato in questi giorni di convegno, in maniera ancora più viva, che la famiglia non è solo un problema ma una risorsa. Noi abbiamo bisogno della famiglia! Stare con la famiglia ci fa bene. Fa bene alla Chiesa, fa bene ai preti, fa bene alle nostre comunità. Fa bene non solo per quello che la famiglia fa! Ma soprattutto per ciò che essa è e per ciò che essa trasmette.

Lavorare per la famiglia significa lavorare per l’uomo nella concretezza: significa lavorare per la coppia, per i figli, per i bambini, per i giovani e gli studenti, per gli anziani, per chi deve fare i conti con il lavoro, per chi è malato, per chi è ferito nelle relazioni, significa lavorare per l’educazione e per la trasmissione della fede e della sua celebrazione, significa impegnarsi per la legalità e la custodia del creato, per la sicurezza e la vivibilità delle nostre città, significa lavorare in favore dell’impegno politico e per la cultura della vita.

Un’attenzione tutta speciale va pure data al mondo giovanile, all’ambito educativo e in particolare alla pastorale scolastica.

Un’altra parola è Continuare.

Bisogna continuare ad incontrarci! C’è bisogno che continuiamo a stare insieme come in questi giorni! Per questo sarete ricontattati. Perché questa mi sembra la strada giusta! Non dobbiamo disperderci; dobbiamo rimanere uniti. Tutti dobbiamo dare il nostro contributo, dando ognuno ciò che ha!

L’ultima parola è: Come Maria.

Come Maria, Madre e modello della Chiesa, dobbiamo fare anche noi! L’icona della Visitazione ce la presenta, come donna in uscita che va da Elisabetta per portarle l’annuncio della salvezza e offrirle il servizio della carità.

Pensando a voi e alla nostra Chiesa, in questi giorni, ho scritto una preghiera alla Madonna che dopo vi sarà consegnata quasi come un mandato.

(Segue la preghiera: Santa Maria, Vergine della Visitazione)