Il Cardinale di Napoli, intervenuto ad Ischia per la prima delle catechesi in occasioni del Giubileo, ci racconta la sua vita pastorale a Napoli svelando problematiche ma anche tanta vita della Chiesa locale che, spesso in silenzio, è vicina a chi vive situazioni di disagio.

 

Intervista di don Carlo Candido per il Kaire

Don Carlo: Eminenza, sono quasi 10 anni del vostro episcopato a Napoli; dopo dieci anni che cosa è cambiato e cosa non è cambiato nella vostra esperienza di pastore della chiesa napoletana?

Cardinale Sepe: Dieci anni non sono pochi, vista l’evoluzione veloce e continua. Certamente ho riscontrato a Napoli, appena arrivato, quei valori che conoscevo e che costituiscono un po’ la realtà sociale, culturale, religiosa della città, quel DNA che rappresenta l’identità, la napoletanità della nostra gente. Come in tutte le società, alla luce corrispondono però delle ombre che da una parte si tenta di eliminare per una svolta reale della società, ma d’altra parte sono incrostazioni che si fa fatica a togliere. C’è ancora una sensibilità a certi valori, quelli che riguardano la famiglia, l’accoglienza, la reciprocità di rapporti, ma d’altra parte rimane una chiusura che impedisce alla comunità, alla società di fare squadra, di mettersi insieme per cercare insieme di risolvere i problemi… una certa mentalità che dice sto bene io, cerco di sopravvivere io e il resto non m’interessa. Il che è profondamente sbagliato sia da un punto di vista personale, perché chi si chiude in se stesso alla fine muore di asfissia perché non c’è aria, non c’è novità, sia per la mancanza di quell’apporto necessario che ogni cittadino che è parte di una comunità dovrebbe dare alla società in cui vive.

Don Carlo: La difficoltà che ha trovato soprattutto, in questi anni, quindi è il fare squadra, è lavorare insieme, più individualità ma poco cammino insieme.

Cardinale Sepe: Individualità ma anche eccellenze: abbiamo eccellenze un po’ in tutti i campi: scientifico, medico, letterario, giuridico, persone che tutti ci invidiano, perché rappresentano dei punti di riferimento; quando però si cerca di affrontare un problema che caratterizza un certo malessere, ognuno ha paura di perdere la sua libertà. Io sono convinto che fino a quando non si riuscirà a mettersi insieme per risolvere i problemi, né la chiesa da sola, né le istituzioni, la scuola, o le famiglie da sole ci potranno riuscire, e questo con particolare riferimento ai problemi dei nostri giovani.

Don Carlo: Lei ha dato un monito forte a tutta la città di Napoli quando ha detto che la camorra è dappertutto, è come un morbo che si è diffuso. Qual è la risposta della chiesa di Napoli a questa lebbra? Lei alcuni anni fa invitava i cosiddetti corrotti di cui parla Papa Francesco nella Misericordiae Vultus a convertirsi e a deporre le armi: ricordo i famosissimi cesti ai piedi dei crocifissi. Cosa è cambiato?

Cardinale Sepe: Siamo arrivati a prese di posizione molto forti. Per esempio un documento sui sacramenti, discusso da tutti gli organismi di partecipazione della diocesi e con il parere favorevole della Congregazione per il Culto Divino, con cui, sempre per sensibilizzare, abbiamo proibito i sacramenti, e in certi casi le esequie nelle chiese, a questi malavitosi: come può uno fare da padrino a un battesimo, a una cresima, a un matrimonio, cioè essere un testimone di un sacramento, quando poi la sua vita è tutta contraria a questi insegnamenti? Questa non è una condanna, si dice semplicemente che fino a quando non sentite un minimo di rimorso per il male che spargete nella nostra società, non potete essere rappresentanti di quel Dio di amore, testimoni di quel Vangelo di carità, di fraternità che il Signore ci ha dato.

Don Carlo: Lei ha parlato delle baby gang…

Cardinale Sepe: Noi ora non solo stiamo perdendo una generazione intera di giovani, noi stiamo offrendo a questi giovani per mancanza d’impegno, la strada del male. I capi tradizionali, o perché uccisi o perché in carcere, hanno lasciato un vuoto che questi ragazzini cercano di riempire. Sono giovani, anche adolescenti, qualche volta anche bambini.  Se questi sono il futuro della nostra società, noi stiamo costruendo una società sul male, sulla cattiveria.  La chiesa fa quello che può. Stiamo realizzando, da alcuni anni, le attività oratoriali; questo è il terzo anno di un campionato di calcio parrocchiale, con 2800 bambini, che coinvolge genitori, fratelli, sorelle; in sette parrocchie abbiamo creato delle bande musicali, però sono sempre gocce d’acqua.  Se noi non ci mettiamo insieme con la scuola, che fa già tanto, se non coinvolgiamo le famiglie…

Don Carlo: Fare una patto di alleanza, tutti. Lei, quando ha iniziato da Scampia, entrando a Napoli, ha detto “Non perdiamo la speranza” e in fondo queste gocce d’acqua della chiesa di Napoli sono segni di speranza, anche per la società civile.

Un ultima cosa. Per la Chiesa d’Ischia lei è il primo testimone catecheta del nostro anno giubilare: ci può dare un incoraggiamento, e anche un augurio, per questo anno della Misericordia?

Cardinale Sepe: Credo che veramente sia un dono che, attraverso il Papa, Dio offre a tutte le chiese. Dio interviene nella storia, nella vita di ognuno di noi per scuoterci, in un momento drammatico in cui davvero sembra che l’umanità abbia perso il senso del proprio essere, della propria esistenza.  Questi focolai di guerra un po’ dappertutto, non solo in Medio Oriente, ma in Africa, in Asia, in America Latina…come liberarci da questa ondata di violenza che sembra trascinare un po’ tutto e tutti?  Ecco la Misericordia. Questo Gesù di Nazareth che rispecchia la maternità-paternità di Dio, che si presenta all’uomo come il Dio della vita, del rinnovamento, della penitenza, della conversione, della purificazione. Perché che cosa ci ha rivelato Cristo: ci ha rivelato la nostra dignità di uomini figli di Dio, ci ha affratellati, in lui, e ci ha insegnato a vivere da fratelli e sorelle. Siamo tutti chiamati a riscoprire il volto misericordioso di Dio in Cristo Gesù, per riprenderci, per non scoraggiarci. E poi, sulle orme di Giovanni Paolo II: “Sono venuto per riorganizzare la speranza”, perché nel momento in cui non c’è più speranza, allora tutto è finito. Nel momento in cui non ci arrendiamo al male, ma ci organizziamo per fare il bene e nel fare il bene sconfiggere il male, allora sì, noi rispondiamo a quella missione che il Signore ci ha dato.