- Messa Crismale nella Veglia di Pentecoste
Omelia del Vescovo Pietro
30 Maggio 2020
Carissimi, benediciamo il Signore! Benediciamolo innanzitutto per la ripresa delle celebrazioni con il popolo santo di Dio e benediciamolo perché ci dona la grazia di vivere la Messa crismale.
Abbiamo rischiato, quest’anno, di non riuscire a celebrarla. E, invece, per grazia di Dio, siamo qui questa sera, con il presbiterio isolano, il collegio dei diaconi, i seminaristi, le religiose e una rappresentanza dei fedeli laici, ad accogliere la grazia che da essa scaturisce. Davvero ringraziamo Dio!
La Messa crismale è infatti – come scrivevo, nella Lettera inviata ai nostri sacerdoti, in occasione della Settimana Santa – “uno dei momenti più alti della vita della Chiesa; sì, perché mai come in quella occasione, la Chiesa si presenta! Mai come nella Messa del Crisma la Chiesa si mostra: si manifesta come la Sposa e, insieme, la Madre del Signore che sta sotto la Croce. E dalla Croce accoglie la Vita, l’accoglie come un fiume che sgorga da una Fonte: il Costato di Cristo, crocifisso per amore. Dal Figlio, la riversa sui figli che succhiano al suo seno, perché si espanda e arrivi a tutti, in ogni angolo, su ogni lembo, ad ogni periferia”.
Quest’anno – per i noti fatti che hanno visto l’intero Paese con il fiato sospeso fino a qualche giorno fa e ancora oggi ci preoccupano – la celebriamo non nel contesto consueto della Settimana Santa, ma in una cornice spirituale diversa, diversa ma non meno intensa spiritualmente, vale a dire nella Veglia di Pentecoste, compimento della Pasqua e giorno in cui celebriamo la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa nascente.
Il Vangelo perciò non è quello solito, di Luca, ma è tratto dal cap. 7 di Giovanni (37-39).
Gesù è nel Tempio di Gerusalemme: si sta concludendo una festa, una tra le più importanti per il popolo di Israele: il Sukot, la Festa delle capanne o dei tabernacoli. Attorno a Lui c’è, quasi certamente, tanta gente e, forse, anche tanta confusione. E Gesù grida.
“Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me…»”.
Gesù, ritto in piedi, grida: l’indicazione relativa alla postura di Gesù pare un chiaro riferimento alla Pasqua: alla morte sulla croce ma anche alla sua resurrezione. Anche il verbo: “gridò” ci appare un richiamo al grido di Gesù dall’alto della croce, di cui pure ci parlano i vangeli; un riferimento a quel parto sulla croce per il quale Gesù grida e dal quale, per mezzo dello Spirito, nascerà la Chiesa: senza quel grido non ci sarebbe stato lo Spirito e non sarebbe nata la Chiesa. Lo dice lo stesso Vangelo di Giovanni che commenta: “Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato”.
Cosa grida Gesù? “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me”.
“Venga a me, e beva…”. E noi siamo venuti!
Che gioia rivedere la gente che ritorna in chiesa per le celebrazioni; rivedere la gente che viene a Gesù! Finalmente! Quanto abbiamo sofferto! Avete sofferto innanzitutto voi, carissimi fratelli e sorelle laici, questa sera presenti ancora in numero ridotto – ma speriamo ancora per poco – costretti ad un digiuno eucaristico che, seppure accettato con spirito di obbedienza e senso di grande responsabilità, di certo ha provocato in voi sconcerto e confusione. Ma, credetelo, abbiamo sofferto anche noi, vescovo e sacerdoti, sapendo voi chiusi nelle case, senza la possibilità di partecipare realmente all’Eucaristia, senza la possibilità di poter mangiare la Carne del Risorto e noi, costretti a celebrare sine populo! Quanto abbiamo sofferto!
E la sofferenza c’era davvero tutta! Qui, infatti, alla mensa della grazia che scaturisce dal costato di Cristo, noi beviamo, qui ci nutriamo, qui ci saziamo, qui riceviamo lo Spirito! “Come poveri affamati di pane, assetati bisognosi di vita, siamo qui davanti a te…”: così abbiamo pregato in questo tempo con la preghiera per la fine dell’epidemia. “Signore da chi andremo?”: come Pietro a Cafarnao, nel momento della crisi, qui sentiamo sgorgare dal cuore anche noi quell’esclamazione che, in nuce, ha già tutti gli elementi di una vera e propria professione di fede.
Qui troviamo la forza per rimanere anche noi in piedi, e stare ritti come Gesù. Dice Gesù: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me…”. C’è una Vita che ci è offerta; ed è per tutti; c’è uno spirito, lo Spirito di Cristo, che è dato per tutti; per tutti coloro che lo vogliono, che lo desiderano; come acqua che sgorga da Lui, di cui sono segno anche i santi Olii sui quali questa sera invocheremo la benedizione del Signore.
C’è una sola condizione che ci è richiesta. Quale? Che abbiamo sete!
“Se qualcuno ha sete, venga a me …”: dice Gesù.
Abbiamo sete di Dio? Abbiamo sete di Vita? I medici ci dicono che la mancanza di sete, l’assenza del bisogno di bere è pericolosa; noi non possiamo fare a meno dell’acqua e, se non beviamo, possiamo morire per disidratazione.
Carissimi, cosa è per noi l’esperienza dell’epidemia che abbiamo vissuto e con la quale stiamo facendo ancora i conti?
Le domande posteci e le considerazioni fatte in questo tempo sono davvero tante. Ci siamo chiesti e ancora ci chiediamo: come cambieranno le cose? Il futuro sarà scandito ancora da abitudini reiterate? Come sarà la coscienza personale e collettiva? E, se è vero che “nulla sarà come prima” – quante volte lo abbiamo sentito – come saremo concretamente? E ancora molte altre domande: sulla ripresa del lavoro, sull’economia, sulla scuola, sull’educazione, sulla vita delle nostre comunità ecclesiali.
C’è bisogno però che noi ci facciamo prima di tutto un’altra domanda. Almeno noi cristiani dobbiamo farcela. E la domanda è: cosa ha voluto dirci il Signore in questo tempo? Cosa il Signore vuole che noi traiamo dal momento drammatico che stiamo vivendo?
Di certo, questo tempo è un Kairòs, un passaggio di Dio nella nostra vita e nella nostra storia. S’impone pertanto una lettura spirituale della drammatica esperienza vissuta, che ci aiuti a riconoscere ciò che Dio vuole da noi. Qual è la volontà di Dio per noi oggi? Cosa ci chiede Dio per questo tempo? E ciò a tutti i livelli. A livello personale e comunitario: come singoli, ma anche come famiglie, come Chiesa, come presbiterio, come Isola d’Ischia. A cosa Dio ci sta chiamando? Qual è il passaggio o, meglio, il parto, per dirla con la Seconda Lettura di questa Messa (Rm 8,22-27), che Dio ci chiede di fare?
La famosissima pagina della “Torre di Babele”, di cui abbiamo ascoltato nella Prima Lettura (Gen 11,1-9), tradizionalmente interpretata secondo lo schema classico dei racconti della punizione divina in risposta all’orgoglio umano (in greco hybris) è, in fondo, prima di ogni altra cosa, una chiamata a vivere un passaggio; all’umanità delle origini il Signore chiede di fare un passo, di fare un passo nuovo, di fare pasqua, di rimettersi nella volontà di Dio per realizzare il progetto più volte manifestato da Dio sull’uomo, quello cioè di moltiplicarsi e riempire la terra.
Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra (Gen 1, 28 e 9, 1), aveva detto Dio. Ma l’uomo che pure sente il bisogno di fecondare la terra, ha paura di aprirsi al mondo e, di conseguenza, sente forte la tentazione di chiudersi a riccio arroccandosi sulle torri della propria autosufficienza. Come è attuale la storia della Torre di Babele! Per far ripartire il progetto di Dio e far sì che l’umanità realizzi la sua chiamata a “moltiplicarsi” e “riempire la terra” c’è bisogno che essa sia dispersa: non c’è altra via. Dall’esperienza della dispersione l’umanità imparerà che la sua realizzazione non si ottiene negando e uccidendo le differenze, ma accogliendole e riconoscendole, e capirà pure che l’unità e non l’unicità, la comunione e non l’omologazione, è ciò che Dio vuole; e che essa, l’unità, è, come per Dio, comunione delle differenze. Ma per questo, per capirlo e per farlo, ci vorrà lo Spirito Santo. La Pentecoste più che essere il capovolgimento è dunque il compimento di un disegno sull’uomo che Dio non si rassegna a realizzare e per il quale Egli ci offre continuamente nuove chances, anche se a prima vista l’uomo le riterrà incidenti di percorso.
E oggi Dio cosa vuole dirci?
“Signore… – pregava Papa Francesco nella Meditazione del 27 marzo scorso in una piazza San Pietro completamente deserta – ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri”.
La pandemia è stata una vera tempesta. E cosa avviene quando c’è una tempesta? Diceva ancora Papa Francesco nella Veglia di quella sera: “La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, […], privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità”.
Sì, c’eravamo addormentati, avevamo abbandonato ciò che alimenta la nostra anima, avevamo messo da parte ciò che ci può dare vero nutrimento.
Forse anche noi preti. Anzi, prima di tutto noi, chiamati ad essere modello del gregge a noi affidato.
Ritrovare la sete, risvegliare la sete, liberarla da tutto ciò che le impedisce di andare all’Acqua: ecco, dunque, ciò che ci è chiesto. Ritrovare la sete di cose vere, di autenticità, la sete di libertà, la sete di relazioni profonde, la sete di senso, la sete di vita, di amore, la sete di Cristo e del Suo Vangelo, in una parola la sete di Dio.
Carissimi, non permettiamo che la pandemia, che ha prodotto tanta sofferenza e devastazione, sia venuta invano; il sacrificio di tante persone che non ce l’hanno fatta (soltanto in Italia più di 33mila; 363mila in tutto il mondo), sia seme per la gestazione di un mondo nuovo, di una nuova umanità, lievito di fraternità per una nuova stagione di vita per la Chiesa e per la terra.
“Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me”. Liberiamo dunque la nostra sete!
Gesù poi continua: “… Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva“. In questo testo non è chiaro se questa parola si debba applicare a Gesù o ai credenti.
Tanti si sono posti la domanda e tra questi ultimamente anche Papa Benedetto XVI nella sua opera “Gesù di Nazareth”. Il Papa emerito riferisce di due tradizioni, una occidentale che propende per vedere nel grembo il cuore del credente e un’altra, riconducibile ai padri dell’Asia minore, che farebbe pensare a Cristo stesso.
Evidentemente sono possibili entrambe le letture. D’altronde, se confrontiamo il testo con le parole che Gesù dice nel dialogo con la Samaritana (Gv 4), ci rendiamo conto che sono perfettamente condivisibili ambedue le interpretazioni. Il grembo è Gesù stesso, ma il grembo sono anche i credenti.
A me però piace pensare che qui il testo voglia riferirsi al Cristo totale, Capo e Corpo: vale a dire alla Chiesa. D’altronde dov’è che il Risorto oggi vive e si rende presente se non nella Chiesa? È là che Cristo vive; è là che lo possiamo incontrare.
La Chiesa è questo grembo in cui, come in Maria, il Cristo si fa carne e dalla quale sgorga lo Spirito. Anche questa sera!
Sì, quel grembo è la Chiesa, la Sposa di Cristo, di cui figlia eminentissima e modello singolare è Maria, la Madre.
La vocazione della Chiesa e di ogni battezzato, di ogni credente, è, pertanto, essere come Maria. Più la Chiesa sarà come Maria, più saprà farsi cavità, grembo accogliente, più saprà fare spazio allo Spirito, più sarà capace di generare Cristo e di darlo ai fratelli.
Maria perciò nella Chiesa è Madre e per ogni credente è modello. E ancora di più lo è per ogni prete e per noi sacerdoti della Chiesa di Ischia che questa sera rinnoviamo le promesse fatte nel giorno della nostra ordinazione.
Possa una rinnovata voglia di comunione con il Signore abitare la vita e il cuore di noi sacerdoti. Lo stare da soli all’altare a celebrare l’Eucaristia ci avrà certamente aiutati a domandarci: per chi le faccio le cose? Veramente vivo per il Signore? Veramente sto spendendo per Lui la mia vita? Veramente voglio vivere solo per Lui e stare con Lui?
A noi sacerdoti il Signore doni un nuovo desiderio di metterci veramente a servizio della comunione, e la consapevolezza che “la vita, del prete innanzitutto, ha valore soltanto se donata, se spesa per gli altri e con gli altri condivisa”, e ci doni pure una rinnovata voglia di lavorare insieme per il Regno, insieme innanzitutto come presbiterio, e di stare con la gente, con i poveri, sacramento di Cristo, e con chiunque è afflitto e solo, senza speranza e senza amore.
Carissimi presbiteri, mi piace ricordare che 100 anni fa proprio in questo giorno. celebrava la Sua Prima Messa Giovanni Battista Montini, il futuro San Paolo VI, di cui ieri abbiamo celebrato la memoria liturgica nel giorno della sua ordinazione presbiterale.
San Paolo VI aveva un cuore innamorato di Cristo e della Chiesa e amava tanto il suo sacerdozio. Era la strada per lui per diventare santo! Vi affido alla sua intercessione perché insieme possiamo imitare il suo esempio.
Fratelli e sorelle, impariamo tutti da Maria ad accogliere lo Spirito e a generare Cristo nel modo. Potremo farlo, ognuno a suo modo, se saremo capaci di fargli spazio. Se noi per primi vivremo dello Spirito e, nello Spirito, saremo testimoni di Vita nuova. Potremo farlo se aneleremo alla santità, come la cerva anela ai corsi d’acqua.
Carissimi, il mondo ha bisogno di Cristo e del Suo Spirito. Ne ha bisogno come l’acqua!
Carissimi, se ci è tornata la sete… ritorniamo a bere!