Omelia del vescovo Pietro
per l’inizio del nuovo Anno Pastorale
Chiesa Cattedrale, 21 settembre 2018
Per una Chiesa, libera, in cammino, missionaria.
Siamo qui, carissimi fratelli e sorelle, per dare inizio al nuovo Anno Pastorale che, da qualche anno, apriamo ufficialmente nel giorno della festa liturgica di San Matteo Apostolo ed Evangelista. E, come sempre, lo facciamo mettendoci dinanzi al Signore, anzi sedendociintorno a Lui come i pubblicani e i peccatori che andarono da Gesù quel giorno, per incontrare, a casa di Matteo, quell’Ospite tutto speciale.
Come malati bisognosi del Medico celeste anche noi siamo qui, con le nostre ferite, le nostre cadute, le nostre fragilità, le nostre febbri. Quante fragilità fuori, ma anche dentro la Chiesa! Sì, anche dentro la Chiesa. Davvero la Chiesa, oggi più che mai, si presenta a noi come un grande ospedale da campo… come ama ripetere Papa Francesco. Si, siamo malati,Non siamo sani! Riconoscerlo è una grazia. Quando invece vogliamo nascondere le nostre malattie allora impediamo al nostro Medico di sanarci.
«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. … non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». «Se siete sani, se vi ritenete non bisognosi di guarigione, allora – sembra dire anche a noi Gesù questa sera – non sono venuto per voi, non avete bisogno di me, scusate il disturbo… vado altrove, vado da altri».
Quali sono le mie malattie? Ognuno di noi può provare a chiederlo al Signore questa sera: Signore, fammi vedere le mie malattie… le mie, non quelle degli altri. Illuminami con la Tua Parola perché possa riconoscere le mie malattie. Quelle che mi rendono triste, pessimista, sempre stanco, incapace di risplendere, di trovare e portare gioia nelle cose che faccio….
“Se sarete quello che dovete essere metterete il fuoco in tutto il mondo” (cfr. Santa Caterina, Lettere, 368).
E anche a livello comunitario possiamo provare a farci questa domanda: Signore, quali sono le malattie della mia famiglia? Di questa famiglia che nonostante tutto, nonostante le sue ferite, le sue divisioni, tu continui ad amare e a benedire? Signore, quali sono le malattie di questa tua Chiesa – è questa, innanzitutto, prima di tutto, la preghiera del vescovo questa sera! – quali sono le malattie di questa Chiesa ischitana, a te tanto cara, che tu tanto ami, chiamata ad essere Sacramento di Salvezza, nonostante le sue rughe, i suoi tradimenti, il suo cuore indurito?
E così per le nostre parrocchie, le comunità religiose o le aggregazioni ecclesiali presenti sull’Isola: Signore, quali sono le malattie della comunità parrocchiale di cui faccio parte, di cui sono membro attivo, di cui sono ministro, di cui sono parroco, amministratore, vicario parrocchiale? Quali sono quelle malattie della nostra parrocchia, che le impediscono di dare il meglio di sé, di essere ciò che dovrebbe essere, – tenda di Dio tra le case degli uomini – ?. Signore, facci vedere quali sono le miserie della nostra comunità religiosa, della nostra congregazione. Quali sono le malattie del movimento, dell’associazione, dell’aggregazione ecclesiale di tua appartenenza?
Il discernimento spirituale si fa, innanzitutto così, sia a livello personale che comunitario. Si fa, cioè, mettendosi in preghiera; ponendosi dinanzi al Signore per permettere che sia Lui a parlarci e a giudicarci.
«A me però, poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; – scriveva Paolo alla comunità di Corinto –anzi, io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore!» (I Cor4, 3-4).
E se noi la grazia del discernimento la domanderemo, Dio ce la concederà! Lui ci parla sempre: ci parla, in primo luogo, attraverso la Sua Parola, ma anche attraverso la Chiesa, i fratelli, i fatti della storia. Mi piace ricordarlo a me e a voi e, in modo particolare, agli organismi di partecipazione ecclesiale qui presenti questa sera: il Nuovo Consiglio Pastorale Diocesano, i consigli pastorali Parrocchiali, i nuovi Consigli Parrocchiali per gli Affari economici.
La Parola di Dio è quel faro potente che ci permette di vedere: sì, vedere, come i medici con i moderni strumenti di diagnostica. Vedere che cosa? Sì, certo: le nostre malattie! Ma, prima ancora, un’altra cosa: l’amore di Dio per noi; il Suo amore per noi, nonostante le nostre malattie e fragilità. Questa duplice visione è capace di guarirci.
Il vangelo della festa di San Matteo, che ogni anno viene proclamato, proprio dalla versione del primo evangelista, ci presenta il racconto della sua chiamata, o della sua conversione. Ma ancor di più, potremmo denominare questa pagina, il racconto della sua resurrezione. Sì, resurrezione; ciò che infatti ci viene offerto in questa narrazione evangelica è la storia di un uomo che il Signore rimette in piedi, rialza, anzi ricrea, risuscita.
Di questo racconto, ciò che stasera attira particolarmente la mia attenzione è la posizione del corpo assunta da Matteo, da Gesù, dai discepoli, dagli altri pubblicani e peccatori.
Matteo che prima è sedutoal banco delle imposte, lo vediamo, dopo l’incontro con Gesù, in piedie in camminodietro di Lui.
Gesù, invece, prima presentatoci in piedi, anzi in cammino e sulla strada, lo vediamo dopo l’incontro con Matteo, mentre siedea tavola nella casa di lui. E la stessa cosa vale anche per i discepoli.
Così pure i molti pubblicani e peccatori, li vediamo prima in camminoper raggiungere Gesù e poi sedutia tavola con Lui.
Gli unici che non si muovono, di cui non ci è descritto alcun movimento, sono i farisei, i quali – fermi – osservano la scena; senza mai muoversi, neppure per andare a parlare con Gesù, ma si limitano a interrogare i discepoli, mostrando tutto il loro disappunto per il modo di fare del loro Maestro.
Carissimi, chi è Gesù? La contemplazione dell’icona della chiamata di Matteo ci dice che Gesù è Uno che rimette in piedi le persone. È Uno che rialza. Matteo-Levi è uno dei tanti paralitici guariti da Gesù. La sua paralisi era ben più grave e ben più seria di quella che blocca le gambe: non è un caso che quando Gesù parla per la prima volta del potere che Lui ha di rimettere i peccati lo faccia dinanzi ad un paralitico.
Prima di incontrare Gesù, Matteo è un uomo seduto al banco delle imposte, quasi intrappolato nelle sue ricchezze, sepolto sotto le sue carte, i suoi conti e i suoi denari, forse mai appagato di quanto ha accumulato. Un uomo che non vive più, la cui vita è spesa tutta nell’accumulare; un uomo come ce ne sono tanti anche oggi, che non guadagnano per vivere ma vivono per guadagnare, che credono che più si è quando più si ha; ingannati come Matteo dal principe della menzogna che fa credere che la Vita possa venire da ciò che si possiede, come il giovane ricco, come Zaccheo.
Matteo è come loro. Anzi è, forse, come il figlio della vedova di Nain di cui abbiamo letto nel vangelo di Luca qualche giorno fa: un uomo in posizione orizzontale, a terra, un uomo che non vive più, un uomo morto. E Gesù lo risuscita, come per l’amico Lazzaro; lo libera dalle bende che gli impedivano di vivere e di vedere e gli consente di mettersi in piedi e in cammino. E libero, come altri prima di lui, anche Matteo si mette alla sequela di Gesù.
Come l’Apostolo Paolo anche Matteo potrebbe dire di sé:
«7Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. 8Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo 9ed essere trovato in lui» (Fil 3, 7-9).
Carissimi: e noi che rapporto abbiamo con il denaro e con le ricchezze?Matteo, l’esattore delle tasse che lascia il suo banco delle imposte per seguire Gesù, cosa ha da dire a noi? Siamo liberi rispetto all’idolo della ricchezza?
I soldi – lo sappiamo – servono per realizzare tante opere buone, per far progredire l’umanità, ma quando diventano l’unica ragione di vita, distruggono l’uomo e i suoi legami con il mondo esterno.
«Quante famiglie distrutte – ci diceva il Papa qualche anno fa – abbiamo visto per problemi di soldi: fratello contro fratello; padre contro figli! Quando una persona è attaccata ai soldi distrugge sé stessa, distrugge la famiglia» (Santa Marta, 21 ottobre 2013).
E ultimamente ci ricordava:«Gli idoli chiedono sangue. Il denaro ruba la vita […]. Le strutture economiche sacrificano vite umane per utili maggiori. Pensiamo a tanta gente senza lavoro. Perché? Perché a volte capita che gli imprenditori di quell’impresa, di quella ditta, hanno deciso di congedare gente, per guadagnare più soldi. L’idolo dei soldi. […] E si rovinano vite, si distruggono famiglie e si abbandonano giovani in mano a modelli distruttivi, pur di aumentare il profitto» (Udienza generale, 1 agosto 2018).
Per motivi meramente economici quanti conflitti e quante guerre si perpetuano ancora oggi in tante parti del mondo e con esse: fame, distruzione e morte! Quanti crimini, quante sopraffazioni, affari loschi, in nome dell’idolo del denaro. Quante situazioni di malaffare, di ingiustizia, di prepotenza e d’illegalità! E ciò a tutti i livelli.
Pensiamo alla nostra Europa. Sempre più debole e divisa, mostra in maniera evidente i segni di una crisi di identità che non le consente di realizzare la sua originaria vocazione di casa comune, promotrice di pace e di democrazia, e ora, incurante del suo passato e delle sue radici, gioca a litigare sulla pelle dei poveri e dei migranti.
Pensiamo all’Italia, culla di umanesimo e di civiltà, di cultura e di bellezza e, ora, paese tra i più vecchi al mondo, sempre più miope e impaurita nella gestione di sfide che di certo non si affrontano innalzando muri e barricate, né si risolvono seminando sentimenti di odio e di violenza.
Pensiamo anche alla nostra bella Isola, dove pure cresce la povertà e il disagio sociale e ancora albergano situazioni di ingiustizia e di sperequazione, di illegalità diffusa, di indifferenza e di disaffezione ai valori del bene comune e del territorio, ma che, soprattutto, si mostra sempre più divisa, ingessata nella ricerca egoistica del proprio particulare, con il triste primato di terra tra le più litigiose d‘Italia.
E tutto ciò anche a causa dell’idolatria del denaro e del mito di un falso benessere. Sì: l’idolatria uccide, rende chiusi e insensibili all’altro, incapaci di condividere, indifferenti a chi ci è accanto.
E noi cristiani, in un mondo sempre più ammalato della piaga dell’egoismo e dell’indifferenza e sempre più schiavo dell’idolatria del denaro, che ruolo giochiamo? Qual è la parte che dobbiamo fare?
Anche a noi Gesù stasera dice: «Seguimi!». E ci dice pure «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc12, 15). E ancora: «Non potete servire a Dio e a mammona» (Lc 16, 13).
Papa Francesco ripete spesso che se la conversione non tocca la tasca non è vera: «quando la fede non arriva alle tasche – egli dice – non è una fede genuina»; e questa è «una regola d’oro» da ricordare (Santa Marta, 16 giugno 2015).
I cristiani devono dare, anche rispetto al denaro e alle ricchezze, un segnale di libertà. Sia nella loro vita personale e familiare, sia nella vita della comunità cristiana, sono chiamati a diventare, anche da questo punto di vista, lievito di vita evangelica.
In questo senso un compito particolarmente importante sono chiamati a svolgere nelle comunità parrocchiali i Consigli Parrocchiali per gli Affari Economici.
La presenza qui questa sera dei membri dei nuovi Consigli Parrocchiali per gli Affari Economici – dopo il rinnovo del Regolamento da me promulgato – ci invita a domandarci: come si amministra l’economia nella nostra Chiesa e nelle nostre parrocchie? I laici – che in queste cose sono certamente più bravi e competenti di noi, vescovo e presbiteri – sono convolti nell’amministrazione dei beni della Chiesa, oppure crediamo che in certe cose sia meglio che non ci mettano il naso? L’amministrazione delle offerte dei fedeli è espressione della volontà di realizzare una Chiesa che sempre più operi in maniera condivisa, trasparente, responsabile?
L’insediamento dei nuovi CPAE, prima ancora, ci chiama, però, – come ho scritto nel suddetto Regolamento – a riscoprire la “natura comunionale della parrocchia, chiamata a vivere sul modello delle prime comunità cristiane che gestivano proprietà e risorse in un’ottica di condivisione dei beni e avendo a cuore, in modo particolare, i poveri nelle loro concrete necessità (cfr. At2, 42-47; 4, 32-37)”. Di quella natura comunionale il CPAE è e dev’essere “espressione visibile” (art. 2). A servizio di una Chiesa, Corpo di Cristo, e per l’edificazionedi quel Corpo – per usare le parole della Lettera agli Efesini – esso dovrà operare.
I nuovi CPAE sono l’occasione per riflettere sull’agire ecclesiale delle nostre parrocchie e sul loro modus operandi, nella consapevolezza che nella Chiesa ogni struttura e ogni organismo di partecipazione deve diventare «un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale» (Evangelii gaudium, 27).
A tale proposito desidero qui annunciare che a novembre del prossimo autunno, a conclusione della Visita Pastorale, la nostra Diocesi celebrerà il suo IX Convegno Ecclesiale. Tema del Convegno sarà proprio la parrocchia e l’annuncio del vangelo e in particolare, la domanda: “Quale parrocchia per l’Evangelii gaudium?”.
Anche “il CPAE – ho scritto nel Regolamento – è a servizio dell’evangelizzazione della parrocchia”. Perché tale obiettivo si realizzi è necessario che al suo interno “si adoperi per un’amministrazione veramente evangelica dei beni e delle risorse e che, perciò, nell’esercizio del suo ufficio, si ispiri sempre e comunque a criteri di giustizia, legalità e trasparenza e abbia a cuore una speciale attenzione per i poveri” (art. 3).
Carissimi,dopo l’incontro con Gesù, il vangelo di questa sera ci mostra Matteo non più seduto, ma in piedi, alzato, rimesso in posizione verticale dallo sguardo di Gesù e dalla potenza della Sua Parola: «Seguimi!».
Matteo, libero dalle sue ricchezze, sperimenta che la Vita non gli viene dalle cose, né dal denaro, ma dall’incontro con il Signore Gesù che lo chiama a seguirlo mettendosi in cammino dietro di Lui. Sì, in cammino, alla ricerca degli uomini, per raggiungerli ai crocicchi delle strade dove sono seduti, accasciati, quasi morti come l’uomo che incappò nei brigantinella parabola lucana. Su quegli uomini, caduti e feriti dalla vita, – quanti ce ne sono! E tutti noi possiamo dirci fra quelli! – Gesù, vuole continuare a chinarsi.
Subito dopo la chiamata, Gesù, invece, lo vediamo sedutoa casa di Matteo mentre mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori.
Sembra che le posizioni si siano invertite: ora che Matteo si è alzato, Gesù è seduto. La condizione necessaria perché Matteo si alzasse è stata per Gesù la kenosis, l’umiliazione e l’abbassamento fino alla morte e alla morte di croce. Egli «spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 7-8).
Perché Matteo si alzasse c’è stato bisogno che Gesù si abbassasse fino a terra. Perché Matteo Levi divenisse veramente ricco, è stato necessario che Cristo si facesse veramente povero, perché Matteo diventasse libero, Cristo ha dovuto diventare veramente schiavo.
La storia della conversione di Matteo o, meglio, come dicevamo, della sua “risurrezione”, si è ripetuta lungo la storia con tanti e si rinnova anche oggi con altri, con molti. È la storia dei santi, di ieri e di oggi, gente normale – direbbe Papa Francesco, che sulla santità ci ha fatto dono di una Lettera bellissima che vi invito a leggere – gente normale, anzi poveri peccatori che come Matteo si sono lasciati guardare e amare da Gesù.
Questa opera, Dio vuole farla anche con noi. Gesù, perché noi ci alzassimo, perché da persone sedute, ricurve in noi stessi, attaccati alle cose, diventassimo persone libere, non schiavi delle cose, si è fatto Lui come noi, ha preso Lui il nostro peccato, ha preso su di sé ciò che ci rendeva schiavi.
Ora Matteo è in piedi e Gesù è seduto, fino poi a vederlo a terra, caduto sotto il peso di una croce sulla quale però – anticipo di resurrezione Sua e nostra – Gesù morirà in piedi.
Carissimi, chiediamo al Signore che anche la nostra Chiesa sia come Matteo libera, in cammino, missionaria.
Libera: cioè non attaccata alle cose, e non desiderosa che le persone si attacchino a noi; libera e perciò non ammalata di potere e di possedere. Mai prona davanti ai potenti del mondo, ma sempre in ginocchio davanti a Gesù, nella consapevolezza che solo chi sa porsi in ginocchio dinanzi a Lui, può rimanere in piedi.
In cammino: e cioè mai ferma e mai arrivata; sempre alla sequela di Gesù e sempre itinerante sapendo che non abbiamo una patria quaggiù; Chiesa discente benché maestra, anzi maestra proprio perché discente.
Missionaria: alla ricerca degli uomini, malati e persi, contagiata dalla stessa passione di Gesù. Desiderosa che tanti facciano l’incontro con Gesù. E perciò Chiesa dalle porte aperte, come quella di Matteo, anzi Chiesa in strada per chi è incapace di entrare.
Una Chiesa così è una Chiesa che vuole somigliare a Maria: Lei, Donna libera, in cammino, missionaria.
Così ci è presentata nell’icona della Visitazione sulla quale vi ho invitato a meditare con la Lettera Pastorale “e ti vengo a cercare” in occasione della Visita Pastorale che riprende nei prossimi giorni proprio dalla città di Ischia.
Lei, Donna in piedi, anche sotto la Croce è la Vera immagine della Chiesa,
Chiediamo al Signore la grazia di diventare come Lei: Chiesa libera, in cammino, missionaria. E chiediamolo anche a Lei. Preghiamo perché la nostra Chiesa diventi sempre più così. Preghiamo per la Visita Pastorale. Preghiamo per i giovani e per il prossimo Sinodo dei vescovi sul tema: “giovani, fede e discernimento vocazionale”.
1Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, 2tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio.3Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. (Eb 2, 1-3)