Messa per l’inizio dell’Anno Pastorale

Omelia del Vescovo Pietro

25 settembre 2020

 Sorelle e fratelli carissimi, anche quest’anno – seppure con modalità diverse a causa della pandemia – ci ritroviamo insieme all’inizio del nuovo anno pastorale a celebrare l’Eucaristia.

Siamo qui radunati come Chiesa di Ischia per invocare il dono dello Spirito e accogliere da Lui luce e forza per ripartire, nella consapevolezza che tutti, ognuno a suo modo, siamo chiamati ad andare nella vigna del Signore. Il Signore dice anche a noi – che bello averlo riascoltato domenica scorsa nel vangelo! -: “andate anche voi nella mia vigna…”; che dono, che grazia, che onore – impagabile, lo definisce la liturgia – essere stati, tutti, senza esclusione di sorta, seppure a titolo diverso, e al di là di ogni nostro merito, da Lui chiamati, coinvolti, cooptati, per lavorare nella Sua Vigna!

Siamo, dunque, qui per ripartire!

Questa parola – ripartire – mai come in questo tempo la sentiamo ripetere continuamente. Dopo l’esperienza durissima della pandemia, i cui effetti ancora però persistono in mezzo a noi, – per cui ci è chiesto di non abbassare la guardia e di continuare ad usare prudenza! – ognuno spera che la vita possa riprendere, che si possa ricominciare, ripartire.

Ci si domanda: “quando potremo ritornare finalmente alla vita di prima, quando potremo ritornare alla normalità?”. Ed è legittimo chiederselo; ed è anzi legittimo anche sperarlo!

Lo speriamo per il mondo della scuola, – che con l’aiuto di Dio riparte lunedì anche da noi – per gli ammalati e gli anziani, per le persone più disagiate, per i lavoratori tutti, in specie quelli stagionali (che da noi sono i più), per gli operatori dei trasporti e del turismo; e lo speriamo anche per le nostre parrocchie e le altre realtà ecclesiali, che vorrebbero ritornare alle loro regolari attività e, invece, si trovano ancora alle prese con tante difficoltà e disagi.

Ma – ci chiediamo – era ‘normale’ il nostro modo di vivere prima? Dobbiamo ritornare a vivere come prima? Oppure è chiesto a tutti di operare un cambiamento?

Il Santo Padre, nell’Udienza generale di mercoledì scorso, parlando della crisi sociale seguita a quella sanitaria del coronavirus, ci metteva tutti in guardia, e ci diceva: “Uscire dalla crisi non significa dare una pennellata di vernice alle situazioni attuali perché sembrino un po’ più giuste. Uscire dalla crisi significa cambiare, e il vero cambiamento lo fanno tutti, tutte le persone che formano il popolo”. E aggiungeva: “Non proviamo a ricostruire il passato, il passato è passato, ci aspettano cose nuove. Il Signore ha promesso: “Io farò nuove tutte le cose”. Incoraggiamoci a sognare in grande cercando questi ideali, non proviamo a ricostruire il passato…” (23 settembre 2020).

Se questo vale, a tutti i livelli, per ciò che riguarda le questioni sociali ed economiche, quanto più vale per la Chiesa e per ogni comunità cristiana.

E allora: come ripartire?

Il passo propostoci dal libro del Qoelet, lungi dal voler giustificare un atteggiamento fatalista, rassegnato ed assieme gaudente, ci invita a considerare con onestà che non siamo padroni del nostro tempo e che con tutto il nostro affannarci non possiamo decidere che avvenga questa o quella cosa, – la pandemia ce lo ha fatto toccare con mano! – né possiamo stabilire che vengano soltanto i momenti “buoni”, e neppure possiamo evitare la sofferenza e tanto meno determinare la durata dei suoi giorni (cfr. anche Lc 12,25); ma soprattutto non possiamo avere la pretesa di trovare la ragione di ciò che Dio permette o compie.

Ciò che invece possiamo e dobbiamo fare è invocare il dono dello Spirito per imparare ad affinare lo sguardo e non smettere di chiederci: se “tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo; se “c’è un tempo per nascere e un tempo per morire, / un tempo per piantare e un tempo per sradicare…”, il nostro, quale tempo è?

Alla luce della fede nel Cristo morto e risorto, è necessario fare questo esercizio di discernimento, pena il rischio di non riconoscere, soprattutto in un tempo così duro e difficile come quello che stiamo vivendo, il “nuovo” di Dio, e cogliere che questo tempo – lo sottolineavo già nell’omelia della Veglia di Pentecoste – è un Kairòs, un passaggio di Dio nella nostra vita e nella nostra storia e, dunque, un’opportunità, un evento di grazia.

Si tratta di leggere i “segni dei tempi”, di cogliere, attraverso gli avvenimenti, i richiami e gli appelli di Dio.

È un esercizio a cui non siamo abituati, ma che dobbiamo imparare a fare.

“Come purtroppo dimostra il fatto che, anche in questa emergenza, siamo forse più preoccupati della ripresa della celebrazione dei sacramenti piuttosto che di ‘discernere l’oggi di Dio’”: sono parole dei vescovi della Campania che aggiungono: “Eppure una Chiesa dovrebbe essere capace di leggere in maniera sapienziale la storia […] La pastorale, prima di essere attività, è discernimento, ascolto dello Spirito” (3 luglio 2020).

Come si fa? Innanzitutto mettendosi dinanzi alla Parola di Dio. Ascoltata e accolta ogni giorno, essa è capace di illuminare, nell’oggi, il cammino di ogni credente come quello di ogni comunità, della Chiesa e di ogni battezzato.

Proviamo, anche questa sera, a fare questa esperienza. Dalla Parola del Vangelo che il Signore ci dona, proviamo a trarre qualche indicazione, qualche luce per non andare fuori strada e così arenarci nelle pastoie dei nostri schemi mentali, delle nostre scelte ideologiche, dei nostri modi di pensare e di fare.

Con voi vorrei fermarmi in particolare su una parola del Vangelo.

Il vangelo di oggi, di Luca, ci presenta Gesù che sta “in un luogo solitario a pregare”; “con Lui” ci sono però anche i suoi discepoli. C’è dunque il Signore che prega, e i suoi discepoli sono con Lui.

Ai discepoli è dunque data la possibilità di stare con il Maestro. Essi perciò sono con Lui.

Anche questa sera, qui, è così; anche ora, Lui, il Signore, è in mezzo a noi. Si tratta di un impegno preso; una promessa fatta ai suoi e, a partire da loro, a tutta la Chiesa, quella di ieri, di oggi e di sempre: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro” (Mt 18,20). Un impegno poi ribadito, come Sua ultima parola, prima di salire al Padre: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Egli è perciò presente!

E non solo è presente, ma agisce! Viene in mezzo a noi e prega per noi; per noi si rivolge al Padre e intercede rinnovando l’offerta della Sua Vita. E in questa offerta coinvolge anche la Chiesa, Sua Sposa amatissima. Ce lo dice la fede della Chiesa e lo ribadisce il Concilio, che afferma: “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche” (SC, 7). La nuova edizione del Messale Romano possa aiutarci a riscoprire questa Presenza.

Carissimi, questa verità della nostra fede – la presenza del Crocifisso Risorto in mezzo a noi – è la certezza da cui ripartire. Questa certezza, che da duemila anni accompagna la Chiesa, siamo chiamati ad accogliere nuovamente.

Come ci proponeva San Giovanni Paolo II alla fine del Grande Giubileo del 2000, siamo chiamati anche noi oggi a ripartire da Cristo. Conoscere Cristo, amarlo, imitarlo, per vivere in Lui la vita trinitaria, e trasformare con Lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste, è ciò che innanzitutto dobbiamo fare (cfr. Novo Millennio Ineunte, n. 29).

È prima di tutto questo il grande cambiamento che dobbiamo operare: riscoprire la Sua Presenza.

“Se una presenza invisibile, silenziosa, espansiva e virale ci ha messo in crisi e ci ha sconvolto, – così scriveva quest’anno Papa Francesco ai sacerdoti di Roma – lasciamo che quest’altra Presenza discreta, rispettosa e non invasiva ci chiami di nuovo e ci insegni a non avere paura di affrontare la realtà. Se una presenza impalpabile è stata in grado di scompaginare e ribaltare le priorità e le apparentemente inamovibili agende globali che tanto soffocano e devastano le nostre comunità e nostra sorella terra, non temiamo che sia la presenza del Risorto a tracciare il nostro percorso, ad aprire orizzonti e a darci il coraggio di vivere questo momento storico e singolare” (31 maggio 2020).

Sì, carissimi, è Cristo la nostra ricchezza, è Lui il tesoro grande. Senza di Lui la Chiesa non c’è; e non solo non c’è, ma nemmeno c’è motivo che esista. Con Lui invece tutto cambia; tutto cambia se si fa esperienza del suo amore, del suo incontro. Così fu per i discepoli di Emmaus; così potrà essere anche per noi; tutto cambierà se lo riconosceremo presente nella nostra vita. Ripartire significherà rimettere Cristo al centro.

Forse lo abbiamo emarginato; forse abbiamo dato per scontato la sua presenza e abbiamo ritenuto di poter fare noi con le nostre forze. Lo abbiamo chiuso nei nostri bei tabernacoli e non lo facciamo parlare più, non lo facciamo vedere; ma la gente vuole da noi solo questo: che facciamo vedere Gesù; e invece spesso quando le persone vengono da noi se ne vanno scontente perché non lo trovano.

Presi dai nostri progetti, arroccati alle nostre abitudini e priorità, fermi alle nostre agende, – ci ha detto Papa Francesco – abbiamo “abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità” e dimenticato ciò che nutre veramente l’anima (27 marzo 2020).

È bello, perciò, che all’inizio del nuovo anno pastorale, come i discepoli ci lasciamo anche noi interrogare da Gesù: “Ma voi chi dite che io sia?”. Ognuno si lasci interpellare da questa parola; ogni comunità si lasci raggiungere da questa domanda. Ognuno di noi permetta al Signore di dire: “Ma voi chi dite che io sia?”.

Stare con Gesù concretamente cosa significa? Significa fare nostro il suo stesso stile di vita. Se staremo perciò con Gesù assumeremo i suoi stessi sentimenti, potremo somigliargli e conformarci a Lui, imparare da Lui e fare anche noi come Lui. È ciò che deve stare a cuore a ogni cristiano e a ogni comunità cristiana.

Stare con Lui significa secondo il Vangelo di oggi, alcune cose: significa essere una Chiesa che prega, che accoglie, che annuncia il vangelo e che lo testimonia con la vita.

È così infatti che ci appare Gesù questa sera.

Innanzitutto come colui che prega e coltiva il rapporto con Dio, che si ritira in disparte e cerca l’intimità con il Padre.

Una Chiesa che vuole ripartire da Cristo e rimettere Cristo al centro deve diventare così: una Chiesa che prega.

E noi? Questo è il tempo della preghiera! Siamo chiamati a rimetterci a pregare. Se non vogliamo essere sterili dobbiamo pregare di più, dobbiamo adorare di più: di più deve farlo il vescovo, i preti, i diaconi, di più si deve pregare in famiglia, di più dev’essere promossa la preghiera nelle parrocchie e nelle chiese della nostra Isola; di più nelle comunità religiose.

Sì, dobbiamo parlare di meno e pregare di più. Questo forse non è il tempo per parlare ma per tacere… è il tempo per ascoltare e… pregare.

Da Gesù impariamo anche come si sta con la gente, come si vivono le relazioni, come si coltivano i rapporti, come si forma una vera comunità. Dal vangelo di oggi scopriamo che Gesù è infatti attento alle persone, le lascia parlare, s’intrattiene con loro, insegna a condividere, s’interessa, non va di fretta, sa creare il contesto favorevole.

Una Chiesa che vuole ripartire da Cristo e rimettere Cristo al centro deve diventare una Chiesa così: una Chiesa che accoglie. E noi, siamo una Chiesa accogliente? Siamo una Chiesa capace di farsi prossima? Rimettere Cristo al centro significa essere una Chiesa che ascolta, domanda, s’interessa, accompagna, perde tempo, che sa aspettare e rispettare il cammino di ciascuno, che domanda come stai e chiede cosa pensi, e che non risolve tutto dando cose, viveri o denaro.

Nel Vangelo di questa sera Gesù ci appare però anche come Colui che annuncia la bella notizia della Sua Passione, Morte e Resurrezione: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”. È il Kerygma: l’annuncio che papa Francesco chiama primo non solo perché sta all’inizio ma anche perché è “l’annuncio principale quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra, in tutte le sue tappe e i suoi momenti” (EG, 163).

Una Chiesa che vuole ripartire da Cristo e rimettere Cristo al centro deve diventare una Chiesa così: una Chiesa che riconosce in Cristo crocifisso e risorto l’unica vera novità di cui il mondo ha bisogno e lo annuncia con coraggio e passione, consapevole di essere questa la sua missione ma pure certa di essere essa per prima continuamente bisognosa di ascoltare l’annuncio della salvezza, e di accoglierlo, senza però mai cedere alla tentazione di ridurre il messaggio cristiano a una serie di princìpi, a una morale o a uno spiritualismo disincarnato. Siamo una Chiesa così?

L’annuncio della salvezza che Cristo fa ai suoi lo riguarda personalmente. Egli pagherà di persona fino all’ultima goccia di Sangue: dovrà soffrire molto, dovrà essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, e poi venire ucciso e infine risorgere il terzo giorno. Il suo amore sarà sino alla fine. Con la vita realizzerà la salvezza che annuncia. Sulla croce perciò potrà dire: È compiuto!

Una Chiesa che vuole ripartire da Cristo e rimettere Cristo al centro deve diventare così: una Chiesa capace di testimoniare il vangelo ed è disposta anche a soffrire; una Chiesa disposta a pagare, a sacrificarsi fino alla fine, un Chiesa capace di donarsi sapendo che la vita le viene dal morire; una Chiesa generosa, capace di consumarsi come il Suo Signore. Vogliamo essere una Chiesa così?

Carissimi, siamo disposti a ripartire?

Sì, ma verso dove? Quelli della mia età ricorderanno che era uno slogan vocazionale degli anni ’80 che diede il titolo pure ad una famosa mostra vocazionale. Il Beato don Pino Puglisi, martire per il Vangelo, commentando quella mostra affermava: “Bisogna cercare di seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d’amore. Ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea, già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di avere accolto l’invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito e poter dire: sì, ho fatto del mio meglio. Venti, sessanta, cento anni…la vita. A che serve se sbagliamo direzione? Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come lui, annunciare il suo amore che salva.
Portare speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto, anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo
”.

Vogliamo ripartire? Sì, verso Cristo! Lo facciamo accompagnati da Maria, la Madre, segno di consolazione e di sicura speranza, che ci guarda, ci incoraggia e ci dice: “vai avanti!”. Con questi sentimenti, carissimi fratelli e sorelle, riprendiamo il cammino dietro a Gesù. Amen!