Di Gina Menegazzi – Kaire

Hanno immediatamente appeso in sala le loro foto – i genitori da giovani, le figlie truccate e in posa o con la divisa del diploma, il figlio lontano – e hanno disposto sui mobili o attaccato alle porte immagini sacre e statue di san Charbel e di sant’Hardini – i loro santi -, il Volto della Sindone, la Madonna, la Sacra Famiglia, quasi a marcare la loro voglia di “casa” e a chiedere protezione.

La famiglia Kababji, siriana, è giunta giovedì 16 giugno a Fiumicino – e poi a Ischia – da Beirut, fuggendo dalla guerra civile, grazie ai corridoi umanitari nati da un accordo tra il governo italiano (ministeri degli Esteri e dell’Interno), la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese. Ci ha accolto nell’appartamento offerto loro dalla Diocesi d’Ischia secondo il desiderio del Santo Padre e del vescovo di Ischia Pietro Lagnese e, sotto l’occhio attento e pieno d’amore del capofamiglia, ci ha raccontato la sua storia.

LA LORO STORIA

Il padre Adib, la madre Feryal, il figlio Yaacoub (31 anni), e le figlie Rawaa (29) e Marlene (26) avevano una vita tranquilla fino a qualche anno fa, in Siria: la loro città, Hasakah, nell’estremo nord-est del paese, contava circa 188.000 abitanti, curdi e arabi, mussulmani e cattolici, che vivevano in pace. Adib Kababji aveva un negozio, il figlio lavorava come carpentiere, le due figlie studiavano, un buon tenore di vita.  Quanti di noi si riconoscono in questo quadro?

Poi, a seguito di manifestazioni contro il regime di Assad, represse con il sangue, è cominciata una vera e propria guerra civile, con migliaia di vittime e un numero infinito di profughi. Perché intanto hanno fatto la loro comparsa nella zona vari gruppi di fondamentalisti islamici, tra cui l’ISIS, contro cui combattono anche i curdi: musulmani contro musulmani e ancora di più contro i cristiani. La famiglia Kababji si trova nel mezzo di questo conflitto: un giorno dei loro cugini, davanti alla chiesa, vengono fatti segno, con altri, a un attacco armato e restano gravemente ustionati. Kaire, per rispetto verso i suoi lettori, ha deciso di non pubblicare la foto di uno di loro, con il viso completamente sfigurato e il corpo avvolto nelle bende. Immagine raccapricciante, che pure una delle ragazze conserva sul suo telefonino, a memoria e testimonianza di quanto può l’odio umano.

I genitori si rendono conto dell’enorme pericolo che corrono tutti loro ma soprattutto le figlie femmine, per cui decidono di fuggire in corriera, con i soli abiti che hanno addosso, attraversando il paese e arrivando in Libano. Profughi, come altri 120.000 dalla stessa città. Ma sono una famiglia unita, in cui la gerarchia famigliare è rispettata, e così, restando insieme, trovano un piccolo monolocale (per 5 persone!) a Zahle, nella valle della Bekaa e faticosamente provano a ricominciare: un lavoro per i due figli più grandi, mentre la più giovane studia per prendere la laurea in inglese.

Ma l’ISIS si avvicina, con il suo carico di minaccia verso i cristiani, e intanto il governo libanese comincia a creare difficoltà, anche a causa dell’enorme massa di profughi siriani che stanno entrando nel paese: non possono lavorare più di due persone per nucleo familiare e, per rimanere, ogni 6 mesi devono essere versati almeno mille dollari, una cifra troppo elevata per questa famiglia. La situazione è di nuovo pericolosa e insostenibile, e si comincia a pensare di fuggire per mare… E’ il loro parroco, un siriano che vive in Libano, a parlare loro dei corridoi umanitari, creati in Italia proprio per permettere un viaggio in sicurezza e un ingresso legale, evitando così tante terribili morti in mare e tanto sfruttamento.

Alcuni giorni per controllare la loro situazione e i loro documenti, tre giorni di viaggio per raggiungere Beirut (senza lavarsi, dormendo come capita) ed eccoli catapultati a Fiumicino, insieme ad altri settantasei loro compatrioti, e dopo poche ore a Ischia. Ad accoglierli c’è il Vescovo, monsignor Lagnese, e tanti volontari che si prodigano per aiutarli a risolvere i piccoli e grandi problemi dei primi giorni.

“Era l’ambiente che sognavamo” – mi racconta Marlene, la più giovane, che parla perfettamente inglese grazie a quegli studi che ha dovuto interrompere – “Un paese cattolico e sicuro, dove la gente è generosa, dove vorremmo poter trovare lavoro, e una nostra casa”.  Non sognano di tornare nel loro paese, dove ormai non c’è più niente e nessuno. Stanno studiando l’italiano e vogliono restare nella cattolica Italia, grati per la protezione che la Chiesa d’Ischia, con la Comunità di Sant’Egidio, sta offrendo loro.  Sono rispettosi e riconoscenti e vogliono disturbare il meno possibile con le loro richieste; accolgono tutti con un sorriso dolce e caloroso e l’offerta di una tazza di caffè, sempre con la presenza vigile del padre che, anche se non parla e non capisce che l’arabo, pure non perde una parola, dando la sensazione, sotto un’apparenza tranquilla e dimessa, di essere il vero perno della famiglia. Però, si vede un baratro nei loro occhi quando ti dicono: “Di molti non abbiamo più notizie, e non sappiamo nemmeno se la nostra casa è ancora in piedi o è stata rasa al suolo”.

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